Questa emergenza da #coronavirus mi ha congelato i pensieri e tolto le parole. Non so a voi che effetto abbia fatto. Da un giorno all’altro relegata in casa con tutta la famiglia senza la possibilità di uscire: niente passeggiare, ma anche niente lavoro.
La forzata inattività mi ha portato alla sospensione non solo dei progetti in atto, ma anche di quelli in nuce.
Inchiodata alle ore che scorrevano impietose, con una rapidità sorprendente e inaspettata. In cui non riuscivo a leggere, a chiacchierare spensieratamente, a godere di un relax che credevo di aver sempre rincorso.
La mia prima reazione è passata attraverso le mani. Ho smesso di pensare e ho cominciato a fare. Quanti lavori in casa si procrastinano a data da definirsi? Ho cominciato a fare. Ho stuccato, ho restaurato cornici, sistemato piante. Ma anche imbiancato pareti, accorciato tende, sperimentato ricette nuove.
Mani sporche e felici. La sera stanca e soddisfatta. Ma con sensazioni in standby.
Tra le altre quella relativa al lavoro.
Un lavoro in cui l’esperienza plurisensoriale, il contatto fisico con materiali e superfici, l’approfondimento di idee e metodi, l’incontro con l’altro, sono parte fondante. In cui la rapporto interpersonale è al centro della sperimentazione, in cui il dialogo interdisciplinare e la dialettica relazionale sono il motore della scoperta silenziosa.
Sembrava che il covid-19 fosse venuto a portarsi via, con un colpo di spugna, tutto quello in cui credo e su cui ho fondato la mia ricerca: l’incontro! E con esso il contatto visivo, il metalinguaggio, la relazione, la condivisione emozionale, lo scambio energetico.
Poi è esplosa la didattica a distanza, video, link eventi web, le iniziative sono state numerose e repentine, sono stata stravolta dalla risposta del settore. Divisa tra il desiderio di continuare a seguire tutto e quello di spegnere il PC.
Io che volevo starci dentro questo entusiasmo tecnologico. Io che, chi mi segue sa, ho accettato i miei limiti e faccio quello che posso.
Insomma mi sono trovata in un’apnea emotiva tutta da gestire.
Fenicotteri e alveari
Poi, dopo aver sognato fenicotteri bianchi e rosa in colonie sterminate, di avere alveari sulle gambe ed altri simboli, provenienti da chissà quali suggestioni, una mattina mi sono svegliata e ho ripreso a pensare. A leggere. A progettare. a programmare. A parlarmi ancora.
L’ansia per il futuro, che mi ha strattonato pesantemente, mi appariva contenuta: inglobata in una nuova forma. Non definita, ma non infinita.
Il tempo che sembrava arrivare da una dimensione dantesca, come a vivere il contrappasso -molto tempo, senza la possibilità di utilizzarlo come vuoi- ha ripreso un andamento umano.
Il senso comune, schiantatosi su sensazioni ed eventi mai vissuti prima, ha delineato nuovi sentieri che diventano percorribili.
L’immagine di me ha ripreso a riflettere e rifrangere il mondo che mi circonda.
Niente di fluido certo. Ma un inizio. E la forza di far esplodere la domanda sopita: che senso devo dare al mio lavoro oggi? E domani?
Arte come la vita come i bambini
Siamo fatti di racconti. Di ciò che ci viene raccontato. Di ciò di cui cerchiamo di convincere gli altri. Di tutto quello che raccontiamo a noi stessi.
Di quanti racconti sono capace? Vorrei poter dire tanti. Vorrei raccontare di arcobaleni e canzoni. Ma saper narrare anche di incertezze e paure. Storie di nuovi e vecchi miti. Quello che ho visto e che ho solo immaginato. Quello che ho provato e quello a cui ho rinunciato.
Allora mi giro e ritrovo l’Arte. Che è fatta come è fatta la vita.
Che racconta la morte, le ingiustizie, la speranza, la vittoria, l’amore e l’infamia, la gentilezza e la crudeltà. Il passato e il futuro. La disperazione e la resilienza. L’abbandono e la pietà.
L’Arte come la vita che si interroga e cerca nuove strade. Che si trasforma. Come i bambini.
E a fine riflessione mi sento come chi, per poter leggere, cerca – per interminabili minuti- gli occhiali e se li ritrova sulla testa.
Come se fossi partita alla ricerca di un tesoro e, dopo aver girato il mondo, lo ritrovo dentro casa. Come chi, lungo il cammino ramingo, fa incetta di speranza e scorta di coraggio e non sente di aver perso tempo.
Torneremo a incontrarci di persona. Prepariamo nuove connessioni per un recente immaginario, inventiamo nuove parole per impreviste sensazioni, costruiamo nuovi silenzi per sapienti ascolti.
Comincio da qui. Lunga è la strada. Ma i pensieri non sono più congelati.
Il primo passo è fatto.