La mia vuole essere una provocazione. O forse no. Mi è capitato, nel proporre i miei laboratori, di suscitare perplessità o indignazione di attoniti addetti ai lavori che credono che non bisogna in alcun modo mercificare l’arte. Ma che cosa vuol dire? Forse gli artisti di ogni tempo non si preoccupavano di pubblicizzare, vendere o diffondere il proprio talento o i propri prodotti? Le gallerie, le mostre, le stampe delle opere, i cataloghi, le tazze o le maglie con incise opere devono considerarsi insane mistificazioni? Forse l’arte non è spettacolarizzazione? Siamo sicuri che sia sbagliato mettere in comunicazione dei concetti che sembrano antitetici?Io ho affrontato Arcimboldo partendo dai prodotti conservati nel nostro frigorifero, ho utilizzato tecniche di fabulazione appellandomi a Shrek, ho affrontato i ritratti di Picasso parlando del gps e ho raccontato Michelangelo e i suoi affreschi facendo ballare bambini. Non deve scandalizzare accostare mondi differenti lontani, quello che conta è arrivare. Quello che conta è rispettare il dato che stiamo trasmettendo senza banalizzare. Il nostro compito è essere rigorosi, impeccabili e filologici nell’informazione che diamo. I bambini e i ragazzi di oggi sono sottoposti a sollecitazioni multimediali rapide, incisive, adrenaliniche. Come può l’idea di un museo statico e noioso attirare le nuove generazioni? Se mi metto nei panni di un bambino preferisco un’attività vivace e intrigante a una in cui devo solo ascoltare.
Se il nostro obiettivo reale è mettere il piccolo utente di fronte ad un patrimonio e provare a veicolarlo in maniera efficace per attirarne la sua attenzione bisogna creare associazioni stimolanti, interconnessioni tra il suo mondo e quello che proponiamo.
Il fatto che io utilizzi uno slogan per attirare persone al museo non deve andare ad intaccare la qualità della mia proposta didattica.
In questa ottica utilizzare un linguaggio adeguato al target a cui ci stiamo riferendo non è un errore, ma un vantaggio. La didattica è comunicazione. Non si scandalizzino i puristi. Questo non vuol dire affatto denaturare l’arte, vuol dire amarla. C’è stato un tempo in cui ogni cittadino o artigiano possedeva un’incisione, un dipinto o una serigrafia, un tempo in cui gli artisti si riunivano nei bar a discutere di arte e filosofia. Un tempo in cui il passatempo principale degli italiani era il teatro e la lirica. E tutto questo quando l’arte si mescolava con il quotidiano, con la vita di tutti, senza distinzioni classiste o elitarie. Un tempo in cui l’arte era corale, diffusa, comune. Sono cambiati i registri, i metodi, i ritmi, le tecnologie. Dunque è tempo di cambiarne l’impatto comunicativo.