L’articolo di Anna Lena Dobellini, l’ospite di ottobre, mi ha stimolato numerose riflessioni a largo raggio. Il tono immediato e familiare con cui ha esposto la sua esperienza impone di affrontare tali considerazioni in maniera altrettanto diretta. E’ indubbio che esista una congenita difficoltà per reperire fondi e finanziamenti per progetti e attività artistiche, civili o umanitarie: ovvero tutti quegli ambiti, magari di grande impatto sociale, che garantiscono margini di guadagno minimi o nulli. Limiterò il mio intervento al settore che mi compete. Già solo affrontare la questione della gestione e della “monetizzazione” dei Beni Culturali è impresa ardua e complessa.. ma io voglio dire la mia. La fotografia del nostro Paese su questi argomenti è a dir poco desolante. In una politica cieca e autolesionista gli investimenti su tutto il settore culturale sono scarsi, discontinui e, talvolta, osteggiati. Quante volte per farsi finanziare un progetto, seppur valido, lo si deve modificare, in termini più o meno significativi, per farlo ricadere in altre categorie che invece godono- magari momentaneamente- di fondi? Per farmi capire: un progetto che nasce artistico si trasforma in progetto sociale per riuscire a partire, un progetto sociale che per esistere si connota come ecologico, quello ecologico cerca di inserirsi in dinamiche per il recupero territoriale e via andare. Tutto questo al solo scopo di accaparrarsi gli euro minimi per la sopravvivenza di realtà culturali (come associazioni, cooperative, fondazioni, ma anche enti pubblici ) che altrimenti non sarebbero più in grado di offrire servizi alla persona o servizi “aggiuntivi”. Per la deriva del nostro sistema io ravviso 4 maxi problemi. 1° limitata analisi di studio sistematico da parte di economisti, inferiore a qualsiasi altro ambito investigato, un po’ per difficoltà di codificazione del prodotto, un po’ per variegata natura che afferisce alle attività culturali, un po’per la quasi totale mancanza di dialogo tra “culturalisti e economisti”, 2° terminologia inadeguata talvolta eccessivamente generalizzata, talvolta in ritardo nel raccogliere i mutamenti epocali. Mancanza di una definizione univoca, condivisa e chiara di Bene Culturale e attività collaterali, insufficiente in taluni casi, sovrabbondante in altri. Il giudizio e l’applicazione soggettiva di singoli funzionari o addetti ai lavori, incrementano confusione che travalica lo stesso quadro giuridico legislativo. 3° la resistenza al cambiamento del sistema –fatto di persone- che contraddistingue l’Italia. 4° opinione pubblica non sensibilizzata, politica di diffusione inesistente e disinformazione. Che in sintesi significa: quando parliamo di Beni culturali e Patrimonio nessuno ci spiega adeguatamente di cosa si tratta e quale sia il modo migliore per farlo fruttare, non pensiamo che il cambiamento possa iniziare da noi in prima persona e quindi perpetriamo o alimentiamo un’informazione parziale e distorta! Bisogna uscire dal cerchio. Rendersi conto che non è solo una questione di mancanza di soldi, ma di come vogliamo usare i soldi che abbiamo! Ovviamente non sono un’economista, ma una donna che osserva, si informa, e pone domande. Non sono un tecnico, ma so cosa vuol dire investire. Da mamma e da professionista so cosa vuol dire avere a disposizione un budget limitato e doverlo impiegare. A parità di soldi da poter spendere, una scelta rispetto ad un’altra mi porterà delle conseguenze differenti, tanto nell’educazione o nella crescita sana dei miei figli, quanto nella realizzazione di un progetto. Ma per fare questo devo avere un obiettivo a lungo termine e attivare tutti i mezzi e i modi a disposizione per raggiungerlo. Un obiettivo finale, chiaro, definito e declinato determina la fattibilità e l’opportunità di impiego che evita dispersioni e sprechi. E’ tuttavia illusorio pensare che sia esclusiva questione di soldi! Se si investisse 100 volte di più di quanto non si faccia attualmente non si risolverebbe il problema! Accanto vanno apportati altri cambiamenti di gestione e di approccio altrettanto significativi. Allora cosa fare? Per uscire da questa empasse sui beni culturali che rasenta la commedia, occorre cominciare dal punto 4 e risalire all’inverso. Informando e informandoci –perché il nostro ruolo sia da subito attivo- possiamo stimare che valga la pena operare dei cambiamenti, possiamo incidere su definizioni , sugli indirizzi, sulle modalità e stimolare le alte sfere finanziarie per valutare e mettere in gioco tutti gli aspetti economici adeguati. Occorre che ciascuno di noi diventi responsabile del proprio patrimonio culturale. Così da dare nuovo respiro ad un settore irragionevolmente agonizzante.